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Muhammad Ali, allora Cassius Clay, ha diciotto anni
quando partecipa e vince le Olimpiadi di Roma del ’64.
E’ un ragazzone bello e allegro,
scherza con tutti, trottola tra giornalisti e atleti
parla di tutto, anche di quello che non sa.

Quando torna a casa la medaglia d’oro luccica sul petto
la città intera lo accoglie festosa, si fanno parate in suo onore
e la casa è un continuo viavai di complimenti, abbracci, baci
orgoglio.
Cassius ama tutta quella sfavillante notorietà
ama essere uno dei brillanti simboli d’America
e ama la medaglia che conferma la sua grandezza.
Non la toglie mai, la tiene sempre al petto
anche quando dorme.
Grazie a quella medaglia sembra che tutte le porte del mondo
siano completamente spalancate in suo onore.

Fioccano proposte di contratti,
telefonate per diventare manager del ragazzo
e, infine, un gruppo di dieci (poi undici) miliardari
che si presenteranno con un anticipo di 10.000 dollari
e un accordo per sei anni in cui loro prenderanno la metà
di ogni entrata del giovane pugile.
E’ un contratto onesto (rispetto ai tanti che circolavano nel mondo della boxe)
ed è, chiaramente, vantaggioso
per i miliardari.
Eppure di loro i giornali diranno solo:

Che Cassius Clay possa essere eternamente grato per ciò che questi gentili miliardari stanno facendo alla sua anima nera

 E la volontà del gruppo
viene descritta esclusivamente come gesto magnanimo
e mai come accordo economico.
Cassius inizia a intuire che qualcosa non va
ma tiene i numeri dei dieci sempre con sé,
altro simbolo della sua vittoria
alle Olimpiadi
e nella vita.

Cassius Clay, ha diciotto anni, e il mondo sembra sorridergli.

Finché un ragazzo nigeriano non gli si avvicina
lo guarda con occhi grandi e potenti
e gli chiede se ha davvero fatto quella dichiarazione.
Cassius Clay capisce immediatamente a cosa si riferisce,
come si è già detto, alle Olimpiadi parlava di tutto,
anche di ciò che non sapeva
(o non capiva ancora come gestire).
E così, quando gli chiesero cosa pensasse del razzismo in America
aveva risposto:

L’America è il miglior paese del mondo. E io preferisco vivere a Luisville piuttosto che in Africa perché almeno non devo battermi con i serpenti e i coccodrilli e non mi tocca vivere in capanne di fango

 Aveva detto esattamente quello che i giornalisti
si aspettavano da un bravo atleta nero
aveva gridato, a squarciagola, “Viva l’America”.
Nel 1960 Cassius Clay è un ragazzino
è cresciuto in una nazione che lo tiene lontano dal cinema, dai ristoranti
e dal luna-park dietro casa.
Per la prima volta sembra avere tutto a portata di mano
e la vita potrebbe essere semplice
se solo, davanti allo sguardo deluso di un ragazzo della sua stessa età
non si accorgesse di quello che vogliono da lui:
lo vogliono far diventare la Speranza Bianca della boxe.

Sapevo naturalmente che come Speranza Bianca avrebbero preferito un bianco. Ma, poiché nella boxe corrono brutti tempi per le speranze in generale, si sarebbero chiaramente accontentati di una Speranza Bianca Nera, purché credesse in ciò che credevano loro, parlasse come loro e odiasse tutti quelli che loro odiavano. in attesa di un’autentica Speranza Bianca Bianca.

 E mentre questi pensieri iniziano a prendere corpo
mentre il luccichio della medaglia si fa più opaco
decide di fermare la sua moto di fronte a un ristorante.
L’amico che è con lui gli sussurra di non avvicinarsi
ma quando Cassius si avvia all’interno
lo segue.
Si siedono a un tavolo, ordinano hamburger e frappè alla cameriera
che risponde: “non sono autorizzata a servirvi”.

Cassius mostra la sua medaglia, l’amico inizia a bofonchiare
che lui è il campione, è il ragazzo d’oro di Luisville
ma il padrone del locale non cede,
intorno a loro solo silenzio.
E Cassius avrebbe tutto un discorso in testa, uno di questi discorsi da film
in cui lo spettatore piange
e qualcosa, anche nel cuore più duro, si smuove.
Solo che le parole non escono, rimangono incastrate tra i denti
perché lì,
di fronte a quel padrone baldanzoso, alla cameriera ubbidente
in quella squallida tavola calda
con tutti i clienti a capo chino,
lui, che è sempre pronto e spavaldo
e che dovrebbe, adesso più che mai,
essere coraggioso
si vergogna
e non dice niente.
E’ una vergogna viscida
che prende chi dovrebbe tenere la testa alta
e salva l’oppressore, il padrone, il violento.

L’amico lo intima di chiamare uno dei dieci miliardari
perché loro potrebbero risolvere tutto, sono influenti e ricchi
potrebbero comprarsi l’intero locale.
Cassius fissa il telefono del negozio
ha i numeri con sé
ma non si muove.
Non chiede aiuto.
La vergogna cede il passo a qualcos’altro
qualcosa di profondo
uno zoccolo nel buio che si illumina
e che potremmo chiamare coraggio
o dignità
la dignità di chi non ha niente ma non vuole più cedere il passo.

Cassius Clay decide che non vuole nessun padrone bianco a cui dovere qualcosa
decide
che non vuole essere salvato da nessuno.

Esce dal locale.

Più tardi, in quella stessa illuminante e dolorosa giornata
dovrà ancora combattere
contro un gruppo di motociclisti
contro altri bianchi che si sentono in diritto di dominarlo.
Con le mani ancora piene di sangue,
con l’adrenalina ancora in circolo
guarda l’oro della sua medaglia.

Per la prima volta la vede per quello che è:
un oggetto, senza alcun valore simbolico,
sono sparite le illusioni su ciò che una stupida medaglia
avrebbe potuto regalargli.
In quel momento sa, senza il minimo dubbio,
che diventerà il campione dei pesi massimi
del mondo
ma che lo diventerà a modo suo.
E sa, esattamente, cosa fare con la medaglia,
appena decide
passa tutto il dolore.

Quando getta la medaglia nel fiume non prova niente
se non sollievo.

Io sono l’America. Sono la parte che non volete riconoscere. Ma vi dovrete abituare a me: un nero sicuro di sé, aggressivo. Con il mio nome, non quello che mi avete dato voi, la mia religione e non la vostra, i miei obiettivi. Abituatevi a me. 

 

Per questo pezzo mi sono fatta aiutare dall’autobiografia di Muhammad Alì scritta insieme a Richard Durham  intitolata Il più grande – storia della mia vita, edita in italiano da Mondatori. Se la volete comprare la potete trovare QUI.