Lo spettacolo Padre nostro dei Babilonia Teatri inizia
con gli attori già in scena: padre, due figli
(nella vita oltre che nello spettacolo)
e un cane dalla testa grossa e le gambe corte, accucciato a fianco.
Nel mezzo, troneggia uno di quei candelieri che usano in chiesa
con le luci elettriche e le finte candele dalla punta trasparente.
Intorno, l’ex chiesa si San Pietro in Vincoli
che dona al tutto ombre e sacralità.

Durante lo spettacolo, più volte,
canteranno le parole di Tom Waits,
(tra colpi di tosse che piegano le ginocchia
ad accogliere un corpo nudo o una coppa tra le mani
e con un foglio davanti e la traduzione in veneto)
Anywhere I lay my head – ovunque poggi la mia testa.
E lì, mentre il tintinnare delle monete

accende le candele ad una ad una,
sembra di stare seduta accanto a qualche dio
in mezzo a polvere, dolore e lattine di birra,
in bilico tra il sacro e il profano.

Il teatro dei Babilonia è feroce
ma riesce ad essere popolare nonostante la profonda ricerca
la litania perfetta delle parole, i microfoni e i testi
che sembrano spesso una sparatoria di elenchi
ma che rimangono rivolti ad un pubblico ampio
con riferimenti terreni tra preghiera e quotidiano.

E’ un teatro punk, come lo autodefiniscono
per la rabbia che continua a battere
il ruggire di parole e sguardi
che racconta
con immensa e dissacrante poesia
un quotidiano di periferia, di sigarette e colpi in bocca.

Nello spettacolo ad essere indagata è la figura del padre
la fine del padre, l’eclissi del padre, la scomparsa del padre, la distruzione del padre.
La festa del papà.
È un padre vivo, di carne e ossa, quello che ci troviamo davanti

un padre nostro con la P minuscola
che abita un presente fatto di ferocia, di violenza e autorità
ma anche l’ambigua contraddizione
di una figura che viene combattuta e amata allo stesso tempo
la rabbia nello spogliare l’idolo invadente
e la dolcezza nel porgergli le pantofole.

Lo spettacolo è una battaglia a denti stretti nella ricerca di spazi
individualità e
forse
perdono.

Il padre viene messo a nudo
a nudo il suo archetipo e la sua realtà
di organi atrofizzati o ingrassati
ma anche la sua vulnerabilità
il suo spazio e la sua invadenza
padre nostro che stai in cucina…
che stai nel mio letto, nei miei occhi
…toglimi tutto ciò di cui non ho bisogno e che non ho chiesto
…ricorda di tuoi obblighi e i tuoi doveri
ma non invocare diritti.
La preghiera è contro il padre

ma è anche, nelle pieghe della sua rabbia, dedicata alla tenerezza dei ricordi
e al legame che ancora unisce e alla delusione nello scoprirci estranei.
Una disperata ricerca di confini che siano soltanto miei
fuori dalla figura di un altro.
Quando parte il coro dei figli, abbracciati al fucile,
mi si smuove lo stomaco e allargano gli occhi
nel suono, caratteristico dei Babilonia, ritrovo come un vecchio amico
di cui so dove andare a cercare le ferite.

Se lo spettacolo non è sempre completamente pieno
e se alcune scene sembrano scorrere un po’ troppo facilmente
e se, in parte, mi mangio le mani a vedere Enrico Castellani
(autore, insieme a Valeria Raimondi, dell’opera)
in piedi fuori dal palco ad osservare lo spettacolo invece che a recitarvi
nel complesso
il tutto rimane forte
e la sensazione è quella che stia effettivamente accadendo
proprio lì, a qualche centimetro dai miei occhi
qualcosa di reale.
Si sente, palpabile, l’urgenza dietro ad ogni parola.

I teatro dei Babilonia è popolare e profondamente politico
perché lotta contro una realtà cementificata e cementificante
perché combatte
a forza di testate sul muro

il sangue che rimane
è pop, rock e ferocemente punk.

 

Lo spettacolo Padre nostro è una produzione Babilonia Teatri e La Corte Ospitale del 2019, di Enrico Castellani e Valeria Raimondi.
In scena Maurizio Bercini, Olga Bercini, Zeno Bercini. Direzione di scena Luca Scotton, musiche originali Lorenzo Scuda.

Ho visto lo spettacolo il 16 gennaio all’interno della stagione organizzata da Fertili Terreni Teatro in San Pietro in Vincoli, Torino.